ASSOCIAZIONE AMICI DI CESARE BRANDI

 

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2007-03-00

Speciale "Brandi cento anni dopo"

pubblicato in «Il Giornale del Restauro» - Rapporto annuale de «Il Giornale dell’Arte / dell’Architettura», marzo 2007, pp. 12-13.

 

Davide Borsa

 

Dobbiamo scandalizzarci

 

per l'uso ideologico di una teoria?

 

 

Sono passati quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di Teoria del restauro, e i punti più discussi del pensiero di Cesare Brandi sui quali sarebbe bene fissare la nostra attenzione devono essere considerati come punto di arrivo o piuttosto punto di partenza?

La stessa vigilanza critica da più parti continuamente raccomandata dallo stesso Brandi dovrebbe in primis applicarsi alla lettura e comprensione della silloge di scritti, che raccolti sotto il titolo di Teoria del restauro, sono entrati di diritto nella storia della conservazione delle opere d’arte come un classico. Si tratta solo di non fare confusione tra l’autorità del testo e quella, alla quale magari ci sentiamo sentimentalmente vincolati, dell’autore. L’autorità del testo, nel caso di Teoria del restauro, e il suo successo si devono anche a quella sua originale modalità di essere postcrociano, ma anche alla creatività dei suoi lettori. Difficile trovare qualcosa di analogo per l’architettura: senza voler affermare la necessità di tornare ai trattati, il proliferare di una critica debole e senza ambizioni spesso relegata a funzione di cronaca subalterna ha lasciato comunque sola l’architettura. Essa rimane ostaggio a statuti disciplinari deboli che non hanno fornito strumenti coerenti e condivisibili per affrontare i problemi di coesistenza tra vecchio e nuovo. Della storia non si colgono le opportunità di sviluppo sostenibile, ma solo i vincoli o un’ispirazione da sottomettere alle proprie ambizioni formali. L’ultima parola, in mancanza di meglio, passa al progetto. Quello contemporaneo deve essere in grado di dialogare con la «preesistenza» e con la storia attraverso strumenti e linguaggi sofisticati, compatibili con le nostre esigenze e tali da non farci rimpiangere la rozzezza di alcune dicotomie presentate un tempo come ostacoli invalicabili. Sia per i fautori di una conservazione integrale, che privilegia una visione delle discontinuità della storia, sia per chi è incline a scomporre il palinsesto attraverso una analisi selettiva che privilegia una delle possibili versioni dell’edificio, il giudizio adesso passa attraverso la qualità dell’intervento: entro questi parametri si misura oggi il valore, un giudizio che si deve attuare entro la libertà metodologica propria del progettista e la responsabilità culturale del committente, a cui si aggiungono in ambito pubblico anche il controllo e la responsabilità sociale. È stato gioco facile per alcuni adottare un generico brandismo a misura delle multiformi esigenze poste dall’architettura, vuoi per il trattamento delle lacune di un palinsesto di intonaci, vuoi con il richiamo al principio dell’unità dell’opera d’arte o per giustificare ripristini e rifacimenti in nome della possibilità di una visione unitaria dell’opera, che una ricezione e una lettura precettistica di Teoria del restauro hanno senz’altro contribuito a diffondere ed enfatizzare. Altrettanto superflue certe polemiche, che dopo anni di dibattito, ci sembrano giungere oggi ben oltre il limite dei tempi supplementari. Dobbiamo scandalizzarci dell’uso ideologico di una teoria? Se qualcuno ha approfittato per spingersi ben oltre le Colonne d’Ercole del principio del minimo intervento? O se altri si sono voluti impegnare, volenti o nolenti, nel famigerato Grande Restauro (dove abbiamo visto convivere tutto e il contrario di tutto, dalla microfilologia al ripristino, totale, com’era , eclettismo, high tech, modern e postmodern, ipertrofie impiantistiche, ultra-consolidamenti, fantarcheolegia, revival , per non parlare della sponsorizzazione pelosa)?

Su Brandi e il restauro, forse anche qui vale la pena di sgombrare un equivoco, Brandi infatti nasce come precocissimo talento di storico dell’arte ma subito trova la strada sbarrata per l’insegnamento in università. Facendo di necessità virtù, la vocazione alla causa diventa per lui un lussuoso ripiego per chi vedeva preclusa la strada della ricerca e dell’insegnamento in una università presidiata dalla vecchia nomenclatura. Un percorso con l’aggravante di una non inevitabile adesione al fascismo, condivisa con lo storico d’arte e architettura Giulio Carlo Argan e tanti altri coetanei. La direzione di Brandi all’Istituto Centrale del Restauro (ICR) nel dopoguerra si apre con una furibonda polemica di opportunismo politico-culturale, fomentata proprio dallo storico d’arte Roberto Longhi che pure del consiglio tecnico dell’Istituto era fin dalla fondazione cospicuo ornamento. Il congedo di Brandi dalla direzione nel ’61, abbastanza imprevedibile e da lui sottolineato con un laconico «chiamato alla cattedra di storia dell’arte dell’Università di Palermo, lasciavo l’istituto» aggiunge una nota malinconica, ma senza rimpianto.

Brandi era un intellettuale sopravvissuto nel clima di unità nazionale alla caccia alle streghe, ma era oramai diventato scomodo, e come tale veniva silurato da un establishment che non lo riteneva evidentemente più risorsa strategica indispensabile per il restauro italiano. Solo con l’insegnamento a Palermo, finalmente poté riprendere il dialogo interrotto con le materie predilette, l’estetica e la storia dell’arte e allontanarsi da quelle ormai divenute intollerabili «tediose dispute (…) personalismi e impuntature» che lo avevano infine amareggiato. Nessuno può negare oggi che Teoria del restauro rappresenti una sintesi teorica delle esperienze di un percorso di ricerca fatto nel periodo eroico dei pionieri del restauro moderno, con nuovi materiali sperimentali che avrebbero cambiato, e per sempre, i connotati del mondo del restauro tradizionale e che sia un testo ormai classico e di indispensabile lettura, ma sembra difficile che questo possa servire da alibi per giustificare una risposta à la carte per tutti i dubbi e le domande sollevati, e che per questo ci risparmi da altre altrettanto indispensabili letture. Spetta a noi il compito di approfondire i problemi a tutto campo con quella radicalità dello spirito critico che Brandi ci ha insegnato ad apprezzare.

 

Davide Borsa

Dipartimento di architettura e pianificazione Politecnico di Milano

 

 

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