ASSOCIAZIONE AMICI DI CESARE BRANDI

 

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I Luoghi di Cesare Brandi


 

PORTOGALLO

(torna alla pagina con le foto abbinate alle citazioni bilingue)

 

Cesare Brandi

capitolo sul Portogallo

 

tratto da Cesare Brandi, A passo d'uomo, Editori Riuniti, Roma 2004, pp. 121-139. SCHEDA

 

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Il Giardino botanico

 

 

 Nella Sé di Lisbona, che è il nome portoghese per cattedrale (Sé, vale a dire Sede dei vescovo), in una delle cappelle del deambulatorio aggiunto nel Trecento alla chiesa romanica, al solito mezzo distrutta da un terremoto, c'è un sarcofago scolpito, dove, secondo l'uso borgognone, ai piedi del morto è figurato il cane. Ma qui i cani sono due e un terzo sta sul lato sinistro. Non basta: questi cani irriverenti, invece di piangere il padrone sulla sua tomba, lasciandosi morire di fame, sbranano con appetito un pollo, di cui, il cane a sinistra, si vede che si è appartato apposta, com'è l'etichetta dei cani, per divorarsi tranquillamente la testa. La scultura è men che mediocre, ma l’interpretazione non è dubbia. Si dà il caso che il gallo sia un po' il simbolo del Portogallo, anche se non c'entra per niente nel nome, e che questi cani, intenti a nutrirsi col simbolo del proprio paese ai piedi del padrone trapassato, danno molto piú nell"humour nero che nel grottesco. Se ne potrebbe ricavare una moralità sullo stato attuale del paese, che non vuole arrendersi a considerare se stesso, come potenza coloniale, defunto, e, in questa veglia estenuante, finisce per nutrirsi con le sue stesse spoglie. L'Angola, con la sua guerriglia senza fine, costa quattro anni di servizio militare ai giovani portoghesi, costa troppo piú di quel che renda al paese, già in mano a capitale estero per la maggior parte dei servizi che fruttano: per poi finire come è finita l'Algeria, l'Indocina e ogni altra impresa coloniale, della cui presenza fuori dei tempo l''Italia dette il primo esempio, e, fra le sue rare fortune, fu la prima a disfarsene.

Forse per questo fato incombente di cui nessuno parla e tutti ci pensano, il Portogallo è cosi melanconico: verde, civile, e melanconico. E davvero dispiace perché questa civiltà del paese si respira con l'aria, con la pulizia, col decoro. Vedere, ad esempio, il Giardino botanico, giustamente l'orgoglio di Lisbona. È aperto al pubblico, non c'è mica il biglietto d'ingresso, come ad esempio a Rio de Janeiro. È aperto al pubblico e ci vanno i giovani della facoltà universitaria che ci confina. Ma il silenzio è severo come il verde fondo di tutti questi alberi fitti e bellissimi, che si assiepano sul pendio del colle su cui, nella seconda metà dell'Ottocento, fu piantato. Il silenzio è quasi sordo, in questi anfratti di ombra densa che neppure gli uccelli sembra riescano a solcare. Gli alberi rari di tutte le parti del mondo crescono come fossero in serra, e invece sono all'aria libera, il sole vi arriva come nelle glorie barocche, con i raggi d'oro zecchino, che sembrano bruciare, dove arrivano come concentrati da una lente. Perfino l'acqua che scende e serpeggia è silenziosa: i giovani parlavano piano come in chiesa, e non so dove buttassero i mozziconi di sigaretta perché non se ne vedeva per terra. Forse neppure fumavano.

Entro quel verde solenne i fiori erano pochi, e perfino i profumi. Non il favoloso giardino d'Armida, ma un bosco stregato dove forse gli studenti diventano alberi, prima perdono la voce, poi lentamente si abbarbicano al suolo, sviluppano le braccia in rami, le dita in foglie, la testa si ringuàina nel tronco come fa la tartaruga dentro il guscio. Ognuno può scegliere l'essenza in cui trasformarsi, canfora, magnolia, cipresso cinese. Il giorno dopo il bosco è appena più fitto e la scorza sanguinerà a quell'albero in cui lo studente solitario inciderà un cuore trafitto. Ma nessuno incide il cuore sui tronchi d'albero del giardino incantato.

Più giù si scende e più gli alberi salgono per toccare il livello di quelli in alto, finché di colpo ci si ritrova in città, come ad essere su un palcoscenico che figura un bosco, e appena oltre passata la quinta, eccoci in uno stanzone squallido dal soffitto altissimo. Il bosco non era vero, era solo una scena. Cosi appena usciti dall'Orto botanico di Lisbona, chiuso in un anello stretto di case, il giardino non sembra più vero, e quel silenzio, che pareva ottenuto come quando si fa il vuoto, per sottrazione del suono, ci appare quasi un vago incubo da cui ci siamo svegliati e ormai ne siamo fuori. L'incubo non esisteva, il giardino s'è lasciato alle spalle, il silenzio s'è richiuso in se stesso come un coperchio.

Si scende all'Avenida da Libertade, grande come gli Champs Elisées, con tanti bei platani e aiuole fiorite. Passano le macchine, la gente passeggia. Ma c'è questa melanconia che non si dirada. Non basta che siamo fuggiti dal bosco meraviglioso e stregato dove gli studenti diventano alberi e gli uccelli perdono il canto. Quel bosco, quel silenzio, quell'alone di incantesimo sta alla base di tutto, in Portogallo, si ritrova come l'inconfondibile sapore che qualsiasi cibo di un paese tiene in serbo, in fondo in fondo, e li accomuna tutti, quasi fosse il nume indigete che sia andato a rifugiarsi, cacciato da tutti i luoghi, nella gola. È lì che si assapora la Francia, in quel gusto d'aglio e di caccia frolla, o la Spagna nel profumo appassito e avvolgente del Jerez, o la Toscana nei miseri fagioli lessi. C'è ben altro, mi direte: ma poi accade che le immagini si affievoliscono, i ricordi si annebbiano, e voi ad un tratto, in un boccone, in un sorso, avvertite uno scatto sordo e vi sorge dentro una chiesa, una piazza, una campagna. Avete ritrovato quel paese, e nel risucchio del tempo s'è aperta come una falla, s'è prodotto un arresto.

Cosi sarà del Portogallo per me, quando mi colga un'ombra cupa e silenziosa ferita da raggi di sole denso come l'oro, di un sole che ha attraversato le tenebre.

 

 

Sintra

 

 

Tanto avevo sentito parlare di Sintra e mai della straordinaria cucina. Certo, quando un luogo ha fatto la delizia di Byron, e da Strauss è stato valutato come il vero giardino di Klingsor (quasi che Ravello sia da buttar via), attaccarsi ad una cucina sembrerà molto prosaico; ma, a parte le piante straordinarie dell'immenso parco che ammanta un monticello ripido come quello del Purgatorio, la cucina del Pago di Sintra, ossia del vecchio Castello reale, non ha rivali se non in quella dell'Abbazia di Alcobaça; sempre in Portogallo dunque, e anche di questa occorre celebrare la bellezza. Ma per Sintra, figurarsi che, non appena da lontano si vede salire all'orizzonte il colle su cui si trova la squisita cittadina, una cosa colpisce che non si sa, sulle prime, come interpretare: sono due grosse fiasche rotonde in muratura, grandi come cupole e fatte a fuso che, invece di finire col cupolino, mostrano il collo stretto d'una borraccia. Tutto intorno è un saliscendi di tetti, di logge, di finestre manueline ricamate come una tovaglia da chiesa; loro, le due gonfie fiasche, troneggiano come chiocce nel cestino. Covano la casa; sono lo stomaco, se non il cuore, della casa. Allora, quando
si penetra nell'interno, finalmente si capisce come stanno le cose: sono in realtà due immensi camini, due cupole forate in alto, che prendono tutto lo spazio della cucina. E il fuoco, anzi i fuochi si facevano lì sotto.

Un'enorme colonna montante d'aria calda e di forti aromi, della cucina araba e lusitana, doveva riversare i profumi della mensa reale per tutto il paese: e lì, sotto quelle volte altissime, nel bel mezzo, guizzavano le fiamme, a lato sfrigolavano i fornelli, si spalancavano le fauci di due forni. C'è ancora, proprio sotto la prima cupola-camino, un'enorme rastrelliera che sostiene degli spiedi lunghi come lance e grossi come una canna di bambù: su quegli spiedi rosolavano vitelli interi e montoni. E ci doveva volere la forza di un toro, per girarli con quella piccola manovella. Da un canto c'è poi come un armadio a muro di ferro, dove i palchetti sono griglie, di ferro anch'esse, e sotto ci doveva essere un focone per scaldare le stoviglie: che il grasso di montone non si rassegasse in un piatto freddo per i palati regali. Poi pentoloni, caldaie, splendidi mortai lungo le pareti e sopra i fornelli. Naturalmente è tutto rivestito di mattonelle, in questo paese delle mattonelle, e le due enormi cappe non hanno più traccia di fuliggine: un museo è questa cucina, come lo è diventata quella del Serraglio di Costantinopoli. Ma quale museo: come fa partecipare di colpo alla vita di questa corte mezzo araba, mezzo gotica, mezzo rinascimentale. Gli odori non ci sono più, ma si sentono come se avessero lasciato un'impronta nell'aria: e a petto di questa cucina monumentale le altre sale del castello fanno ridere. Anche quella col camino che potrebbe essere del Sansovino, quando venne in Portogallo. Ma di queste sale, troppo più belle se ne è viste: una cucina simile, mai.

Dovevo tuttavia provare un'altra grande sorpresa con quella del monastero famoso di Alcobaça. Era di cistercensi che in genere non sono mai stati celebri per grandi prelibatezze del mangiare. Ma erano in tanti, ai loro bei tempi, che, come il dormitorio sembra una piazza d'armi coperta, cosi la cucina ha proporzioni ecumeniche. Ed è tutta diversa da quella di Sintra. Nella sua redazione attuale è rinascimentale e settecentesca, ma è chiaro che l'impianto rimane ancora quello medioevale. Figurarsi, uno stanzone lunghissimo e altissimo, in cui nel mezzo c'è come un portico sostenuto da colonne doriche: e queste reggono una vertiginosa cappa di camino che arriva, come una piramide, sino al tetto. Sotto, nella fossa appena ribassata, potevano cuocere almeno sei mezzi bovi, e senza urtarsi. Ma non bastava: lungo una delle pareti, c'era un'altra fila di focolari, con le cappe altissime che confluiscono in quella centrale. Certo, il tiraggio doveva essere ottimo: le preghiere non saranno state abbreviate o disturbate dagli odori indiscreti della cucina. La quale, concepita a quel modo, doveva servire più per gli arrosti che per i fagioli lessi.

Arrosti, s'intende, anche di pesci. Per averli a portata di mano e sempre freschi, un condotto faceva arrivare un bel rocchio d'acqua corrente non solo alla fila ininterrotta di pile di marmo che si allineano lungo la parete opposta ai focolai: in fondo alla cucina, sotto le finestre, c'è infatti una bellissima vasca a filo dell'impiantito, come una vasca moresca, e li l'acqua scorre di continuo e li vivevano le trote per i bravi monaci che facevano penitenza. La penitenza continuava in una cantina con le colonne e le volte robuste come una cripta.

Ma non è finita: proprio all'ingresso s'incontra una grande e massiccia tavola di pietra dove venivano tagliate, preparate, imbandite le vivande: è spessa più di un palmo. Su di essa poteva calare una mannaia senza infrangerla. E sembra di vedere, come in un quadro fiammingo, ammonticchiarsi la carne, i pesci e la verdura, su quella mensa; prima cruda e poi cotta.

Si dirà che ad Alcobaça c'è ben altro da vedere: la splendida chiesa che è almeno il doppio in lunghezza di Casamari e di Fossanova, le sue sorelle italiane. Ci sono i due superbi sepolcri di Ines de Castro e del re Don Pedro I: certo le due più belle sculture medioevali del Portogallo, e le più intriganti, per così dire, perché portoghesi non sono di sicuro e sudano umori francesi da ogni parte. Infine il chiostro solenne e vastissimo con la squisita fontana. Di tutto questo si potrebbe parlare a lungo e su un altro tono. La cucina è una cosa ben più modesta: ma, come a Sintra, quando s'è vista, annebbia il resto.

 

 

Obidos

 

  

Non era prevista una fermata ad Obidos: neppure sapevo che esistesse, visto che di fondamentale, per l'arte portoghese, non c'è nulla. Ma felice ignoranza e felice scoperta. Perché, se c'è ben altro in Portogallo, e Batalha e Alcobaça, Coimbra e Tornar, questo paesino bianco, Obidos, entro mura merlate, quasi offerto su un vassoio, è qualcosa che sta fuori del tempo, come una città morta, e dentro il tempo, come una cosa viva.

Le mura sono rozze, grigie, senza orpelli. Da questa campagna, cosi diversa e cosi simile, per la sua purezza, alla campagna toscana, sorgono come un recinto dove non si possa entrare. E invece ci s'entra, da una porta a gomito, che gli antichi dicevano scea, e la strada, che ci si para davanti, è fiancheggiata di case basse, tutte bianche, tutte linde, tutte con i vasi alle finestre, e fioriti. Pensate pure ad Assisi, e più ancora a Cordoba: Obidos è un'altra cosa. È questa civiltà in conserva, che fu composta con tutte le droghe dell'oriente e dell'occidente, e, così mummificata, invece di coniugarsi al passato, sopravvive, decorosa, melanconica, piena di luce e di tenere ombre.

Obidos non è niente altro che queste vecchie case pulitissime e fiorite, la strada che si destreggia fra le case, con piccole gradinate per scendere, piccole salite per arrivare al castello, neppure tanto restaurato. E dovunque fiori, ma non disseminati in modo turistico, con un premio per la finestra più fiorita. Sono fiori che, più modesti, non potrebbero essere, gerani e garofani o quei fiori delle zitelle, viole del pensiero e non-ti-scordar-di-me: fiori, che non li degni di uno sguardo, in un giardino, ma che qui ti appaiono nuovi e come superstiti dal diluvio universale. Cosi guardi le modeste lucernette cristiane, o i poppatoi di coccio che vengono fuori degli scavi e che immergono nel passato più dei preziosi vasi che spesso, nelle necropoli, li accompagnano: codesti sono belli in sé, ma le lucerne, i poppatoi, i più modesti ariballi conducono dritti alla vita quotidiana, a quello che fu il giorno: le opere e i giorni.

Ora si potrà opporre: e c'è bisogno di andare in Portogallo, per un'immersione così a buon mercato nel passato? Non c'è forse in Italia... E qui vi volevo. Perché in Italia non c'è più nessun luogo che sia conservato come Obidos, e come, a parte le caratteristiche uniche e modeste di Obidos, è in Portogallo la norma costante. In Italia, un paesino come Obidos (e se ce n'era!) ha subito il suo ridicolo quasi-grattacielo, le casette presuntuose che hanno tenuto a nascere accanto alle mura, senza garbo, senza rispetto, senza altruismo né per gli uomini né per le cose.

Si vada a vedere Siena, che è qualcosa più di Obidos, e si veda quel che è stato fatto a ridosso delle mura e sotto il forte dei Peruzzi, a Porta Pispini, o a Porta Camollia, o a Porta Romana. Ho detto Siena, mica Peretola, degnissimo luogo per altro ma non certo al pari di Siena. Così ci si difende in Italia: e abbiamo una rete di Soprintendenze, e abbiamo una cultura che certo vagì troppo prima di quella del Portogallo.

Rispondiamo ad un'altra obbiezione: il Portogallo non ha avuto il miracolo economico, è depresso per la dittatura, per la guerra coloniale, è indietro sul tempo in cui vive. Tutto ciò è, più che vero, sacrosanto. Ma anche in Portogallo si costruisce, per depresso che sia, anche in Portogallo ci sono le automobili, la radio e la televisione: e per esempio, già si mangia peggio, in modo più generico cioè, di quando ci ritornai quindici anni or sono. Ma le città sono intatte: e seppure i monumenti talora sono troppo restaurati, come Alcobaca, non mi è mai capitato di vedere in gara un campanile gotico con un grattacielo. Questo paese, che non ha mai preteso, per quanto ne so, di essere il paese dell'arte, ha più rispetto per l'arte, della benedetta culla delle Muse che sarebbe l'Italia. E non parliamo della natura: dell'amore per le piante, dell'amore per i prati, verdi, rosati, compatti, anche se meno umidi che ad Oxford. Non una cartaccia, non un pacchetto di sigarette spiegazzato. E questo, mica nei centri più grandi, ma ovunque. Se mai, è la sera, nell'Avenida da Libertade (davvero appropriato, questo nome!) di Lisbona, che si vede un po' di carta straccia; ma nelle cittadine, nei paesini, che lindura, che decoro: e non come in Svizzera, che te lo rinfacciano ad ogni momento, come dicessero: noi soli siamo puliti e voi lerci. Il decoro della città e del paesaggio portoghese è riservato e silenzioso: non rappresenta un bene di consumo per cui sei tenuto a pagare il biglietto d'ingresso.

Così, lungo le strade, i giovani boschi di pini sono nettati come con lo spazzolino da denti: appena un po' di sottobosco, ma con giudizio. È tutto un parco dove sembra non entri anima viva e dove non ci sono recinzioni spinate. Manca poco sono tenute peggio le vigne.

La luce, sulla campagna, è alta come l'arcobaleno: ha gittata atlantica, ed è limpida come in montagna e calda come nel Meridione. Perché siamo nel Meridione, non scordiamocelo. E per chi ama il Meridione e soffre dei suoi mali congeniti, ereditari, ricorrenti, trovarne uno che gode dei pregi del Nord e del Sudsenza i difetti, sembra un miracolo: è un miracolo.

Non voglio credere, non vorrò mai credere che questo miracolo di educazione, di rispetto, in una parola di civiltà, sia invece il portato di un regime forzoso, di uno stato di costrizione in cui un popolo che spadroneggiò per quasi un terzo del mondo, si trova ora a mordere il freno, illudendosi che basti chiamare province quelle che sono colonie arretrate, addirittura medioevali.

 

 

Nazarè

 

  

Visto dall'alto, Nazarè, diciamolo pure, sembra un lebbrosario: tante case basse, e tutte bianche, tutte coi tetti rosa e staccate l'una dall'altra. Dall'alto l'oceano Atlantico si mostra un mare qualunque, non così azzurro come il Tirreno non così verde come l'Adriatico, non così trasparente come lo Ionio: anzi un po' torbido, senza essere sporco, come fa l'acqua quando ci si mette il fumetto.

La spiaggia è larga, la rena non finissima ma le barche ti incantano. Sembrano scarpe: scarpe con la punta all'insù, tanto la prua è sollevata sulla cresta dell'onda. E sono barche povere, senza motore. Quando c'è burrasca e le barche non tornano, le donne si schierano lungo la spiaggia tempestosa, e pregano e imprecano.

Le barche sono piccole, gli uomini per lo più non sanno nuotare: odieranno il mare, certamente, come quasi in tutte le isole, dove gli uomini non sanno nuotare, odiano il mare, vogliono il continente. Qui sono in continente, ma in realtà il Portogallo è un'isola: ci si sente sulla soglia dell'oceano come sulla porta di casa, e dietro c'è la campagna ondulata, i boschi, le vigne. Ma è lo stesso come essere in un'isola e per uscirne bisogna navigare. Cosi furono tutti grandi navigatori, e non c'è personalità del passato che non fosse navigatore: forse i due soli

uomini illustri che non siano stati navigatori sono Nuno Conçalves, il pittore misterioso di un solo retablo, e Camões. Ma come è isolata la poesia di Camões e com'è lontana; assai più lontana di Virgilio e dell'Ariosto che imita con tanta eleganza: As armas e os Barões assinalados, e cosi avanti, da un lato con arma virumque cano, dall'altro con le donne i cavalier, l'arme, gli amori. Belle ottave non tanto piene, ma dal fiato lungocome il vento dell'oceano.

Così le donne si schierano lungo la spiaggia mentre il mare colore acciaio mugghia e schiuma di rabbia: sono vestite di nero, con uno scialle nero ripiegato sul capo, quasi un tetto. Sono vestite a colori, quelle giovani, ed hanno sette sottane. Più che a Montefiascone, e queste sette sottane, quando ballano si aprono a rota, fanno una grande rosa di cui le gambotte robuste sono i pistilli. Allora sono liete, è festa, e ballano: cosi a Nazarè. E gli uomini hanno una specie di berretta sarda, nera con la nappa che gli scende fino al collo. Ma è il cappuccio dei pescatori: anche a Procida ce l'avevano quasi uguale. Sennonché a Nazarè lo portano ancora, sui visi scavati nel legno duro e di un colore come fossero appena usciti dall'itterizia. Scalzi, con i calzoni a quadri, le camicie a quadri e la berretta. Le donne gli volteggiano intorno, con tutte quelle sottane che s'aprono al vento come una giostra di bambini.

Poi sulla spiaggia, ad un tratto, una presenza inusitata. Sono un paio di bovi, proprio i bovi che tirano l'aratro e qui invece le barche: così i pescatori le tirano su dal mare, attaccandole al giogo dei bovi. Ma questi bovi che trascinano le barche all'asciutto guidate dai bifolchi marini con la berretta nera, quale vita antica di contadini e pescatori, quale società arcaica, quale sguardo su un passato fossile! Lungo la strada che costeggia la spiaggia, sotto il sole già cocente ma neppure tagliato da una lama di vento orizzontale, ci sono i bagnanti nei soliti inverecondi costumi, mentre passano le donne con sette sottane. Ma anche loro le hanno scorciate, le sette sottane, siano pure sette, ma sopra il ginocchio come quelle che ne hanno una a malapena. E così accanto ai bovi che portano all'asciutto le barche, le automobili americane, e accanto alle vecchie sotto il tetto di uno scialle nero, i bikini, gli slip, le radioline, tutto un miscuglio, tutto un pasticcio. Ma la società arcaica rimane: passa la primavera, passa l'estate, tornano i tempi dei marosi furenti, dei nuvoloni neri come draghi, la schiera di donne nere lungo il mare ritorna, tornano i bovi, passata la tempesta, a tirare all'asciutto le barche.

Cosi si sente, senza saperlo, quanto sia antico il Portogallo, come né i viaggi, né i continui approdi di civiltà diverse abbia no cambiato un fondo duro e segaligno: queste facce come porte chiuse, questo parlare nasale e gutturale, quasi senza vocali, dove le aspirate arabe e le gutturali visigotiche fanno del latino originario quel che gli architetti manuelini fecero del Rinascimento italiano.

E se si va a mangiare, è un eguale miscuglio di cose aborigene e di cose lontane: il baccalà, che viene dal Nord, dalla patria dei visigoti, è il cibo nazionale assai più del pesce fresco, che ne possono pescare quanto vogliono, in Atlantico, e senza pagarlo. Il baccalà, che te lo rendono soave e profumato come una spalliera di timo, rosolato cosi dolcemente che il fuoco sembra gli sia venuto dall'alto, a poco a poco, come con le gocciole d'olio. Dove questo vino gentilissimo che è il vino verde bianco, scende come la rugiada, una rugiada appena frizzante, una rugiada davvero senza colore. E se si chiama verde è perché è fatto con l'uva acerba, e non si può trasportare, ahimè, non regge. Così è di quelle cose che vanno consumate sul posto, che la nostra civiltà dei consumi non può inserire nei supermarket. Alzando il bicchiere, contro l'Atlantico azzurrognolo, verdognolo, anche quell'acqua pareva depurarsi, prendere la trasparenza soave dell'acqua marina, di una pietra cioè, non del mare.

 

 

Mafra

 

  

Mafra si trova in uno di quei luoghi che sembrano in basso e invece sono un falso piano: dalla parte del mare s'allunga l'orizzonte. Non s'allunga mai come in Toscana o in Umbria con tante file di colline che vi scavalcano e degradano, s'allunga come se si distendesse e dove tocca coi piedi è il cielo. Di fronte a questo paesaggio, supino, sta Mafra, che non si sa come chiamarla, se reggia, convento, chiesa. Perché è tutte e tre le cose insieme, e anche ospedale e ora caserma, da cui uscivano, in certe divisine grigie striminzite, portoghesi sottili e neri come grilli.

Perché volessi vedere Mafra, era soprattutto per Filippo Juvarra che fu chiamato qua, nel 1720, avuto il permesso del re Vittorio Amedeo, dal re Joao V, che arricchito dell'oro e dei diamanti del Brasile, aveva soldi da buttar via. E gli ce ne volle parecchi, a metter su questo Escoriai fuori tempo, enorme e inamidato, che il destino volle fosse l'ultimo rifugio spaurito della sua dinastia moribonda, nel 1910. Dopo di che fu repubblica: ma una repubblica cosi per dire.

Mafra fu dunque un frutto in ritardo, una specie di incrocio fra il convento spagnolo e Versailles. Ma lo Juvarra, nei suoi bellissimi schizzi, l'aveva pensata in ben altro modo: una piazza grandiosa sarebbe stata, col castello in fondo, vaghi recinti, la chiesa su un fianco. Il problema è sapere se l'ottuso architetto tedesco, il Ludwig, si servì di qualche schizzo dello Juvarra, non tanto per il grosso dell'edificio quanto per la chiesa, che,

nei suoi elementi, più italiana di cosi non potrebbe essere. Ma si dà il caso che di idee juvarrane vere e proprie ce n'è una sola, la facciata con il timpano classico, che lo Juvarra dovè pensare, sebbene non l'eseguisse lui, per la chiesa di San Filippo a Torino, per uno di quei dissimulati rigurgiti palladiani che talora ebbe: ma in fondo non è affatto sicuro che sia sua. E non vorrebbe dire che, comunque, appartenendo al terzo progetto per San Filippo, sarebbe certamente posteriore all'andata a Mafra, perché lo Juvarra, come tutti i grandi artisti, le idee se le portava con i cromosomi della nascita, e le riprendeva e sviluppava per tutta la vita. Comunque, se un riferimento si può fare allo Juvarra, è quel timpano: non altro. E invece è piena, la chiesa, di ricordi italiani quasi letterali.

Intanto i due campanili laterali: derivano né più né meno da quelli disegnati dal Borromini per San Pietro a Roma e mai eseguiti, e la cupola, la più inattesa cupola di tutto il Portogallo, risulta un gentile incrocio fra il Borromini di Sant'Ivo e la cupola di San Carlo di Pietro da Cortona: con questo che, di Sant'Ivo, riprende l'idea del cupolino il cui esterno è sviluppato in esedre concave, e da Pietro da Cortona il motivo a colonne, che, nel tamburo, fiancheggiano le finestre, ma s'azzarda a cosa che né il Borromini né Pietro da Cortona fecero o avrebbero fatto, e cioè trasforma il tamburo come a far eco al cupolino, in un recinto di esedre concave, con dei timpani inflessi come la cresta di un galletto di primo canto. Non si dice certo che sia un'idea sovrana: è sviluppata per analogia, senza intendere che l'avere istituito il tamburo come poligonale e rientrante, rispetto al bulbo slanciato della cupola, produceva una contrapposizione dinamica, tipicamente borrominiana, che, l'autore della cupola - sia il Ludwig o no - ha subito tenuto a smorzare appiccicando nel punto di innesto più fragile, fra tamburo e cupola, quel grazioso timpano esornante come la cresta di un galletto. È chiaro che non c'è una visione sistematica della spazialità architettonica e che gli spunti del Borromini vengono ridotti ad una leggiadra modulazione di superfici. Resta il fatto, tuttavia, che questi accenti inequivocabilmente italiani rimangono confinati, per quel che ho potuto vedere dell'immenso falansterio, alla chiesa, restando gli altri solo genericamente collegati alla tradizione architettonica del tardo-barocco: cosi le cupolette ribassate dei due padiglioni - torri che fiancheggiano l'enorme edificio, che sono come eleganti coperchi di zuccheriera. Il resto, spartimenti della facciata, grevi cortili, rientra in una vulgata abbastanza scolorita: e non saranno certo le statuone marmoree italiane, anche se c'è il Bracci, a risollevare l'anonimato generale pur nell'interno della chiesa.

Mafra sta tutta nel convento - non è insomma pianificata come Caserta: le case borghesi, intorno allo spiazzo si arrestano timorose come davanti ad un reticolato. Insomma lo spiazzo non fa piazza, e dalla scalinata della chiesa, lo sguardo ha la gittata libera sulla campagna che continua oltre i tetti (bassi per fortuna, ma per quanto ancora?).

Nel bosco immenso dietro la reggia (che si sviluppava, a sua volta, dietro il convento e la chiesa) pare ci siano ancora i cervi: ultimi discendenti di quelli che con corna immense popolano il piano nobile a quanto mi è stato detto, sotto forma di grandi trofei e di gambe delle seggiole. Mi sarebbe piaciuto vederli, questi mobili cornuti, ma era tardi e la reggia non si poté visitare.

 

 

Coimbra

 

 

Il fascino di Coimbra, più ancora che alla fama della sua vetusta Università (e al superstite focolaio di libertà che ancora alimenta) era dovuto per me ad una descrizione della Biblioteca che mi aveva fatto Emilio Cecchi. Una specie di silente santuario con minuscole cappelle, dove studiosi privilegiati si isolano come in una cabina spaziale.

La strada per arrivare a Coimbra, da Lisbona, passa per alcuni dei luoghi più rinomati del paese, Alcobaça, Batalha, ma soprattutto passa attraverso una campagna, ora boscosa, ora a vigne, ora a prati, verde sempre, verde secondo una scala che ha vari gradi ma tutti dello stesso timbro. Forse è questo che la rende cosi riposante, e anche il fatto di quelle colline lente, come il mare quando si calma, ma c'è ancora il mare di sotto. Sicché l'orizzonte non è mai molto lontano: direi che la più grande differenza con la campagna italiana è proprio questa. Solo in casi rari si vedono i monti all'orizzonte, non tanto alti, non tanto azzurri: il punto lo fanno i mulini a vento, che ancora funzionano qua, e non per il diletto dei turisti, ma per macinare il grano. Solo da noi i mulini sono stati sterminati in tal modo che ci hanno tolto dall'organizzazione degli Stati con i mulini a vento: e c'erano quelli delle saline di Trapani che erano una meraviglia, così piccoletti, tascabili quasi. A vederli da Erice sembravano girandole da bambini e davano un senso di gioco e di fiera paesana ai lucidi e torpidi specchi d'acqua in cui il sale cominciava a cristallizzare. In Portogallo i mulini funzionano e macinano il grano: aspetto innegabile d'un arcaismo persistente seppure tanto pittoresco. Macinano il grano, ma il pane non è mica meglio del nostro, come invece dovrebbe essere a stare ai lodatori d'un passato così passato che nessuno se lo può più ricordare. Tuttavia se il pane non è migliore, col grano macinato a vento, quei grandi petali di fiore che rotano senza fretta, come l'elica degli aerei che hanno atterrato, sono l'unica presenza, come d'una kermesse ormai conclusa, in una campagna per lo più assente di uomini, di bestie e di case.

Quando si giunse ad Alcobaça, la grande abbazia apparve posata come un grosso modellino di legno fra casette di lillipuziani. La sorpresa si riproduce a Batalha, dove, per accrescere erroneamente l'isolamento e suggerire l'ampio campo di battaglia, abbattono i bellissimi platani secolari che facevano corona a questo che è il più composito insoluto e germinante monumento del Portogallo. Che cosa gliene importa, a chi, a quali sprovvedute persone, di fare il vuoto intorno ad un monumento, per riprodurre un campo di battaglia? Non ci vuol molta fantasia d'altronde, non c'è bisogno di muoversi da dietro lo scrittoio; un piano è un piano. E poi si tratta di un evento così remoto, come, per noi, la battaglia di Monteaperti. Mentre l'attualità del monumento sta là dura e imperativa. Ora, proprio questi due monumenti di Alcobaça e di Batalha, soffrono di
una mancanza di legame al suolo: sembrano, l'ho detto, enormi modelli posati lì e potrebbero stare altrove. Toglietegli i platani, a Batalha, e l'estraneità del grande e caotico edifizio esploderà. Questo malinteso scrupolo storico è stato l'unico caso, in Portogallo, che mi ha messo di fronte ad una strage di alberi: da noi, se Dio vuole, continua ad essere un fatto di tutti i giorni che nessun ministro, per bene intenzionato che sia, riesce ad arginare.

Quando si arriva a Coimbra si dà il piacevole caso che l'Università è l'acropoli della città, sta dove era la reggia, corona, col suo sapere, l'abitato. Proprio nell'antica reggia fu messa, e l'aula magna è ancora una specie di grande salone del trono, con quell'aria contadinotta che hanno gli interni del Portogallo, anche delle regge, poiché non c'era né una grande tradizione pittorica né una plastica a sostegno di un artigianato di fondo quasi rurale.

Fecero bellissimi mobili, certo, alla cinese, forse anche prima dell'ondata di influenza inglese, che per un secolo ha riempito il Portogallo di sedie Chippendale; e avevano bellissimi legni, con tante colonie americane e africane. Tuttavia gli interni sono un po' tutti rusticani, i soffitti dipinti fanno quasi pensare ai mobili tirolesi, e, con tanta profusione di mattonelle invetriate, gli impiantiti a mattoni serbano un incanto di comoda, ampia, fresca casa di campagna.

L'Università, nel suo blocco centrale antico, è contornata ora dagli edifici nuovi, fra cui la nuova Biblioteca. Ma niente paura: quella antica che piace tanto ad Emilio Cecchi, è là, lucida, specchiante, intangibile: adatta più al Parnaso che ad una Università. Per arrivarci si attraversa una grande corte aperta sul lato di fondo, con un'ampia vista sulla città e sulla campagna. Laggiù scorre il Montégo, un fiume sul genere dei nostri, con una modesta portata d'acqua d'un azzurro quasi stagnante, e con bellissime anse bordate di alberi o fluenti come silfidi o gonfi come chiocce. È bello e sereno il Montégo, con il suo serpeggiare un po' simile all'Arno: ma ha più acqua dell'Arno, e la campagna parla con un accento diverso; quel verde, che ho detto, come un basso continuo, e d'uno stesso timbro.

La biblioteca è su tre campate, quante erano le facoltà, quando fu fatta. Tre campate cui danno accesso archi spaziosi, e nel sottarco alloggiano le porticine per salire al ballatoio. Questo corre da tutti i lati e, per permettere di arrivare ai palchetti più alti, contiene bellissime scale a pioli nascoste fra montante e montante degli scaffali. Ma affinché siano di facile uso e proprio non si vedano e con la loro utilitarietà non disturbino l'ordine disinteressato, sono anch'esse laccate e dorate, come gli scaffali, sicché quando tornano a sistemarsi nel loro alveolo non si distinguono dal resto. Un ferro battuto e laccato anch'esso, sporge al punto debito per appoggiare la scala e servire tutto il settore: ma se non c'è la scala, dal basso non si vede nulla. I libri sono solo per gli angeli, che hanno le ali.

 Si stendono a terreno, come piste d'atterraggio, meravigliosi tavoloni di mogano e palissandro, del primo mogano e palissandro venuti in Europa: lucidi come pianoforti a coda, ciascuno reca nel mezzo un calamaio d'argento grande come una piccola fontana.

Ma è là, sul lato verso il Montégo, che ci sono le minuscole celle, con la finestra che dà sul fiume, un'esigua scrivania, la porticina che, quando è chiusa, ristabilisce la scaffalatura come se nulla fosse. Come se non ci fosse, là dentro - dentro questa specie di tiretto segreto - lo studioso che lavora e sogna, lavora immemore distillando parole. Emilio Cecchi, e aprendo uno di quegli uscioli, credevo quasi di vederlo.

 

 

 

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Pagina creata il 25-02-2007 | Aggiornata il 25-02-2007